ESPERIENZE AL CONFINE (Angelo Franzini)

(dal libro "Di che vita morire" , Antonio Del Pennino , Daniele Merlo a cura di Giancarlo Giojelli (Ed. Alberto Gaffi) Milano Marzo 2010

 


 

 

Milano , inverno 1989
Le esperienze più tremende avvengono sempre durante l’inverno.
Da circa 2 mesi un paziente di 43 anni “in stato vegetativo” era ricoverato nel nostro Reparto in corsia dopo un lungo periodo in terapia intensiva e dopo un intervento di asportazione di un tumore “benigno”. La suora del reparto lo accudiva con costanza e sollecitudine e alcune delle infermiere si erano forse affezionate , altre protestavano per la fatica di lavare quotidianamente quel corpo inerte privo di ogni reazione. Io giovane medico incosciente scherzavo per sdrammatizzare quando medicavo decubiti e ferite chirurgiche che faticavano a guarire.
Tutto procedeva “regolarmente” quando un giorno il fratello del paziente mi disse che il poveretto desiderava sposarsi (sic!). La suora che era presente al colloquio disse “ ma è già spostato”. In effetti tutti i pomeriggi dopo le sei una donna veniva a fargli visita e dopo pochi minuti si allontanava quasi furtivamente. Un giorno che ero di guardia la donna mi cercò e anche lei manifestò la strana richiesta di matrimonio . Era convinta che il paziente esprimesse questo desiderio con piccoli movimenti del volto e di una gamba  ad ogni visita pomeridiana. In effetti mi resi conto anche io che qualche cambiamento di espressione poteva esserci anche se non era quantificabile con l’esame neurologico. Organizzai il matrimonio con il parere della suora “ufficialmente” contrario in quanto il paziente era già stato sposato e il suo stato civile di divorziato rendeva questo nuovo matrimonio un poco peccaminoso.
Ancora oggi sorrido quando ricordo che il problema del pregresso matrimonio con relativo divorzio aveva preso il sopravvento sulla triste realtà di quella condizione neurologica “irreversibile”.
Il matrimonio fu celebrato al letto del paziente alla presenza di un assessore comunale in lacrime, le infermiere e il fratello del paziente come testimoni e io come interprete e garante delle volontà del paziente.  Il mio ruolo era di leggere  e  interpretare l’espressione del  volto del paziente e  alla fatidica domanda “ vuoi tu ……”  nulla si mosse e il sonno apparve profondo nella sua irrevocabilità , l’assessore balbettava “ io non posso….”.  Fu la suora che mi venne in aiuto e dall’altro lato del letto effettuò una furtiva e dolorosa puntura nel sedere del paziente con un grosso ago e provocò un inevitabile riflesso di retrazione dell’arto inferiore. Fu facile attribuire al quel misero riflesso antalgico il significato di un entusiastico assenso. L’assessore completò la procedura civile e fuggì in lacrime ripetendo sconsolato “non chiamatemi più”. La mia illusione di essere interprete tra due mondi contigui ma separati svanì e quando chiesi alla suora perché l’avesse fatto , lei mi rispose pacatamente che l’aveva fatto per fare avere alla povera novizia la pensione di reversibilità “ hanno un bambino di un anno…..”. Purtroppo negli ospedali non ci sono più le suore.

Milano , autunno 1983
Paziente di anni 59 affetto da neoplasia dell’apice polmonare destro. Il paziente era ricoverato nel nostro reparto di neurochirurgia per una sindrome dolorosa non trattabile con i farmaci. Il tumore aveva invaso il plesso brachiale provocando dolore lancinante continuo a tutto l’arto superiore destro (sindrome di Pancoast).
Venne sottoposto ad intervento chirurgico di cordotomia . Tale intervento consiste in una lesione
 chirurgica praticata nel midollo cervicale allo scopo di interrompere le fibre nervose che trasmettono al cervello  il dolore. “Sedare dolorem divinum est” dicevano gli antichi romani riferendosi al dolore intrattabile continuo incoercibile che  accompagna molte malattie. Eravamo molto fieri del nostro operato.
La scomparsa del dolore immediatamente dopo l’intervento provocò nel paziente uno stato di euforia .
La notte , quando si addormentò smise di respirare e divenne cianotico .Il vicino di letto  , pur essendo stato operato poche ore prima di asportazione di ernia del disco , chiamo l’infermiera  e nel trambusto il paziente si risvegliò riprendendo a respirare e riacquistando un colorito accettabile.
Tale episodio si ripetè più volte durante la prima parte della notte.
Quando mi chiamarono e mi raccontarono l’accaduto mi resi conto che l’intervento effettuato sul midollo cervicale aveva provocato la sindrome di Ondine. Questa rara sindrome può comparire dopo  lesioni midollari  e consiste nell’arresto del respiro durante il sonno ( il nome Ondine si riferisce ad una delle sirene incontrate da Ulisse nel suo viaggio verso le colonne d’Ercole ; se Ulisse e suoi marinai si fossero addormentati al dolce canto delle sirene sarebbero morti). Se il nostro paziente si addormentava profondamente moriva. Il sonno che prima era tormentato dal dolore ora era liberatorio , profondo ma portava inesorabilmente alla morte per l’arresto della respirazione (il riflesso automatico che controlla e riattiva la respirazione dopo le apnee notturne era assente).
Mi sentii inesorabilmente solo di fronte a questo povero paziente che ci considerava come divinità per avergli tolto il dolore. “Solo” perché nessuno dei protagonisti di questa storia notturna poteva immaginare la verità. Quale etica poteva aiutarmi , quale clausola del codice deontologico.  “Solo Dio può liberarci dal dolore” avevano sentenziato i saggi dell’antica Roma. Solo Dio può decidere della vita e della morte . Come potevo spiegare a questo paziente che il sonno libero dal dolore sarebbe inesorabilmente stato causa di morte . Come potevo spiegare che la vita con l’ausilio di un respiratore  sarebbe trascorsa in un Reparto di rianimazione aspettando la ripresa della malattia , la ricomparsa del dolore e la morte. Lasciai che si addormentasse al canto delle sirene.

Milano Inverno 1988
Venni chiamato in un importante Ospedale Milanese per un consulto al letto di una paziente di 57 anni  “in coma” dopo una emorragia del tronco cerebrale.
In realtà questo consulto mi era stato richiesto dalla caposala della sala operatoria del mio Ospedale (amica dei parenti della paziente) e  non potevo rifiutare  pur considerando la assoluta inutilità di questa mia visita .
Quando giunsi al letto della paziente mi stupii che la paziente non fosse ricoverata nel Reparto di terapia intensiva (era in respiro spontaneo) . La malata era in corsia ma era stato posizionato un “separè” da sartoria attorno al letto come si usava nelle corsie  quando un paziente stava morendo.
Questo particolare del separè mi aveva ulteriormente convinto della inutilità della mia visita.
Era tardi , in corsia solo parenti semi rassegnati e infermieri premurosi e silenziosi come spesso avevo visto quando un paziente in corsia sta morendo.
In cartella , dopo una breve anamesi e la descrizione della emorragia cerebrale mostrata dalla TAC era riportato breve esame neurologico che decretava “paziente in coma irreversibile”.
In ogni caso ormai non potevo far altro che effettuare quelle manovre stereotipate che mi avrebbero permesso di decretare l’irreversibilità della situazione e la prossima fine della paziente con le assicurazioni di rito : “non soffre , non si è accorta di niente”.
Le pupille dilatate non erano reagenti , gli occhi erano aperti , non vi era alcuna risposta allo stimolo doloroso. Stavo per dire all’infermiera di chiamare i parenti quando gli occhi della paziente si chiusero di scatto senza alterazioni del debole respiro (evidente solo per leggerissimi e regolari movimenti della parete addominale) . La paziente era perfettamente cosciente e cercava di comunicare nell’unico modo a lei possibile : il movimento delle palpebre.
Organizzai il trasferimento nel mio reparto (Neurochirurgia) .
La paziente fu sottoposta ad intervento chirurgico di svuotamento dell’ematoma del tronco infatti la chirurgia stereotassica ci permetteva di intervenire con sicurezza anche in strutture anatomiche altrimenti non raggiungibili. Successivamente evidenziammo la causa dell’emorragia che era una malformazione vascolare. Anche la malformazione fu rimossa chirurgicamente.
Nonostante il brillante intervento la paziente rimase paralizzata ai 4 arti e tuttora può effettuare solo piccoli movimenti delle palpebre ed emettere suoni inintelligibili. Quando dopo mesi di riabilitazione riuscì ad esprimersi con l’aiuto di un apposito computer dedicato , mi scrisse una lettera.
Mi insultava e mi malediceva per averla sottratta al suo “destino” e mi accusava di averla costretta a quotidiane sofferenze fisiche e psichiche per il resto della sua vita.

 

 

 
RIFLESSIONI
Nonostante  trenta anni di professione medica in Reparti di Neurochirurgia non ho ancora le idee chiare sul “confine” che prima o poi tutti dobbiamo attraversare  Chi rimane fermo lì a metà strada non deve essere spinto in avanti ma neanche troppo trattenuto dalle nostre nobili intenzioni e illusioni. Il progresso tecnologico ci potrà trattenere in vita sempre più a lungo , questo è sicuro , ma la vita come fenomeno biologico  ha una fine biologica .  Sia che la morte sia intesa come liberazione dello “spirito”  dalla materia o  come restituzione della materia al ciclo biologico della “madre” terra  , nessuno può interferire………..Il corpo umano è una meravigliosa macchina senza il libretto di istruzioni  e senza la data della scadenza . Se la scienza ci illuminerà su questi aspetti non sarà necessariamente una conquista se questo ci farà soffrire .   

 

 

 


 

 

L' INSALATA MATTA

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VENTO










Angelo Morbelli, giovane pittore conosciuto a Milano come uno degli esponenti del nuovo realismo pittorico a sfondo sociale, espose nel 1884 all’Accademia di Brera quello che sarà in seguito conosciuto come il suo capolavoro: “Asfissia!”.
Il dipinto, ricco di particolari ritraeva una scena drammatica: una tavola imbandita, alcune lettere, una pistola, tanti fiori sul pavimento e in un angolo due corpi distesi, un uomo e una donna morti.





A cosa si fosse ispirato Morbelli per dipingere l’opera non era noto: si trattava di un omicidio, di un suicidio o di entrambi?
Malgrado l’indiscutibile e riconosciuto talento del pittore nel realizzare gli effetti della luce filtrata nella stanza e la sua maestria nel riprodurre gli oggetti, il dipinto non fu ben accolto dalla critica dell’epoca che giudicò il soggetto troppo crudo, l’insieme poco equilibrato e lo scorcio con i due corpi distesi, mal riuscito.
Tanto bastò a Morbelli per fargli tagliare in due la tela, eliminando la parte con i due corpi e quindi la descrizione del dramma, il “senso” (se non la spiegazione) del quadro e gran parte della sua tragicità.


Continuò ad esporre l’altra parte della tela, quella principale, con la tavola apparecchiata ma priva dei protagonisti del duplice delitto.
L’opera diventò allora una bella, complessa natura morta che, a prima vista faceva pensare ad una ricca, elegante e divertente cena, con fiori, champagne e tanto disordine; ma ad uno sguardo più attento, scorgendo le lettere e la pistola appoggiati sullo scrittoio, riaffioravano gli stessi interrogativi suscitati dalla tela originale: la scena rappresenta un delitto? Un suicidio, un omicidio o entrambi?
Era un mistero accennato del quale non si vedeva niente ma si intuiva tutta la drammaticità.


E così è stato per oltre cento anni. Oggi il giallo è stato risolto: la parte dell’opera con i due corpi è stata ritrovata, giustificando visivamente la presenza del revolver e confermando le ipotesi di una tragedia in atto.
Inoltre conosciamo la fonte d’ispirazione del dipinto: un fatto di cronaca avvenuto a Milano nel febbraio del 1884, il triste epilogo di una piccola grande tragedia d’amore che suscitò evidentemente al giovane Morbelli il desiderio di immortalarla per sempre con un dipinto che infatti fu esposto a Brera nell’ottobre dello stesso anno, appena otto mesi dopo l’accaduto.


Il fatto di cronaca :
Due giovani innamorati decidono di mettere fine alle loro esistenze in una stanza d’albergo; il loro amore, ostacolato dalle famiglie è senza futuro e disperati preferiscono morire insieme piuttosto che continuare a vivere separati.
I due amanti sono Adolfo Franzini, sottotenente dei Lancieri di Montebello di vent’anni, e Gina Bignami, figlia di un macellaio, appena diciannovenne.
Una notte fuggono di casa e si recano all’Albergo Torino, a pochi passi dall’allora Stazione Centrale.
E’ un Albergo frequentato da “coppie di passaggio”, senza tante formalità e dove non richiedono i documenti.
Come riportano dettagliatamente i quotidiani milanesi dell’epoca, alle quattro e mezzo di mattina i due giovani salgono in camera, vi passano la notte e l’indomani “hanno fatto salire il direttore dell’albergo, il signor Bronzini, e gli hanno ordinato da pranzo raccomandandogli di far loro servire vini buoni e cibi freschi e saporiti” (Corriere della Sera del 19/02/1884), che la coppia si concede come ultimo inno alla vita, prima della tragedia.
“Alla sera”, scrive in proposito il giornale “La Perseveranza”, “volendo compiere il disegno da loro già precedentemente stabilito, [si fecero accendere la stufa e] cercarono di avere del carbone con cui procurarsi la morte”.
La prima idea della coppia sembra infatti quella di darsi la morte tramite asfissia ma qualcosa probabilmente non funziona e la sera il Direttore dell’Hotel ritrova così i due ragazzi: “La fanciulla (..) era appoggiata al letto (…) Una larga macchia di sangue nella camicia indicava la ferita.
Il giovane era a letto sotto le coperte (…) in atteggiamento di chi dorme (…) era già cadavere; la fanciulla, soccorsa subito dal Bronzini, fu portata in un’altra camera (…) Quanto all’ufficiale, egli aveva mirato diritto al cuore e la morte deve essere stata istantanea (…) I due giovani avevano lasciato sul tavolino della camera 4 lettere chiuse e 4 piegate ma non ancora riposte nella busta (…) [Quanto al revolver] pare che sia stato comprato sabato o domenica dal Franzini nella bottega d’armaiolo della vedova Legnani in via Broletto” (Corriere della Sera). Sulla sorte di Gina Bignami si sa che viene trasportata dall’Albergo alla casa del padre ed affidata alle cure dei medici che sperano di salvarla, ma niente di più, anche perché le cronache dell’epoca seguiranno il fatto solo per pochi giorni.
Si conclude così questo “Dramma d’amore”, come titolò "la Perseveranza", dettato dalla folle passione di due ragazzi che si conoscevano appena da quattro mesi.